.

LE FESTE DEL DOLORE


Conferenza presso la Chiesa della SS. Annunziata
sede dell'Arciconfraternita di Santa Monica
Sorrento, 28 febbraio 2015

Quando l’amico Giuseppe Alfaro mi ha contattato invitandomi a tenere a Sorrento, presso la vostra Arciconfraternita, una conferenza sulla Settimana Santa in Italia, ho valutato la proposta come un macigno che all’improvviso mi fosse stato caricato sulle spalle in quanto, pur volendo tentare una simile impresa, il tema è talmente vasto che, per essere solo marginalmente trattato, avrebbe richiesto una durata cento e più volte superiore al tempo che questa sera impiegherò per trattare l’argomento in questione.
Non essendo quindi possibile navigare per tanto tempo nel grande oceano dei riti della Settimana Santa a livello nazionale, ho accettato l’invito soprattutto perché comunque, Leopardianamente parlando, “il naufragar m’è dolce in questo mare”, restringendo però il campo alla sola Italia Meridionale, nella errata e vana illusione che il compito sarebbe stato meno arduo.
Ed infatti di errata e vana illusione si è trattato, perché considerando come Meridione d’Italia il territorio che da Abruzzo e Campania arriva a sud, comprendendo le due isole maggiori, Sicilia e Sardegna, si può ben dire che la quasi totalità dei riti che ricadono nel tema di quella che viene definita “Pietà Popolare”, proprio qui vengono celebrati per cui parlarne è come riferirlo alla Italia intera.
Ho pertanto fatto appello alla mia massima capacità di sintesi per cercare di porgere in maniera esauriente ma non noiosa un argomento che per troppo tempo è stato per così dire messo da parte, per non dire snobbato, sotto la spinta di quella specie di Illuminismo post sessantottino che, prendendo in prestito termini riferibili all’arte, non saprei se definire modernista o post moderno, ma comunque ignorante e qualunquista.
Parlo appunto della “Pietà Popolare” verso cui, anche da parte della Chiesa ufficiale, vi è attualmente una grande attenzione. A questo proposito anche Papa Francesco, nella sua Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” così si esprime al paragrafo 123: Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi. In alcuni momenti guardata con sfiducia, è stata oggetto di rivalutazione nei decenni posteriori al Concilio. È stato Paolo VI  nella sua Esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” a dare un impulso decisivo in tal senso. Egli vi spiega che la pietà popolare «manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere» e che «rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede».
Ed ancora al paragrafo 126 il Santo Padre così conclude: È proprio vero: «Le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione».
A fronte di quanto sin qui detto, prima di “scendere al Sud”, un brevissimo cenno ai Riti che durante la Settimana Santa vengono celebrati nelle Regioni del Centro e del Nord d’Italia è in ogni caso opportuno darlo; essi sono limitati ormai quasi esclusivamente a quelli previsti dalla Liturgia ufficiale della Chiesa Cattolica, avendo il loro culmine nel cosiddetto “Triduo Pasquale” che chiude praticamente la Settimana Santa stessa.
Salvo quindi rarissime eccezioni, durante il Venerdì Santo sono veramente poche le processioni simili a quelle che invece nel Meridione sfilano per le vie di ogni città, paese o perfino frazione; è chiaramente diversa la matrice storica alla radice di usi e costumi che differenzia il Centro-Nord dal Sud, non solo dal punto di vista religioso.
Nonostante ciò, vi sono alcune realtà quali Savona (in Liguria) oppure Orte e Civitavecchia (nel Lazio), dove è ancora vivissima, da parte di secolari Confraternite, la tradizione di organizzare una grande processione nella giornata del Venerdì Santo.
Tra l’altro, proprio a Savona, benchè con cadenza biennale (negli anni pari), la processione detta del Cristo Morto si connota con la presenza di ben quindici gruppi statuari di grande valenza artistica (detti “Casse”), cosa che la rende molto simile a quelle che a più di mille chilometri di distanza si svolgono in Sicilia, in località quali Trapani o Caltanissetta.
Per quanto riguarda invece il resto dell’Italia, il discorso cambia radicalmente, ma prima di proseguire voglio ricordare che spesso si legge che i riti della Settimana Santa nel Sud d’Italia siano di derivazione spagnola; ritengo questa affermazione quanto di più errato possa esistere. Vero è che il nostro Meridione ha subìto la dominazione spagnola a partire dal 1501 (con Ferdinando di Aragona) fino al 1861 (con Francesco II di Borbone), e altrettanto vero è che nella cultura come nel dialetto o nelle abitudini quotidiane, la Spagna ha avuto grande influenza sulle nostre popolazioni.
I riti della Settimana Santa, con la Spagna hanno però poco a che fare; sono due realtà completamente distinte per tutta una serie di motivi. Non solo, ma da una regione all’altra, diverse sono anche le matrici culturali, le prassi e l’estetica dei diversi riti e processioni.
Facendo un “excursus” su ciò che in questo periodo avviene nell’Italia Meridionale, ritengo opportuno iniziare, non a caso, dalla Campania, senza ovviamente entrare nei dettagli delle realtà in cui i riti si svolgono, avendo di fronte, in questo momento, un auditorio che molto meglio di me potrebbe parlarne.
Oltre tutto, mi sia concessa la battuta forse un po’ irriverente, sarebbe quasi come andare a rubare in casa del ladro …

In Campania (con la sola eccezione dei Misteri di Sessa Aurunca) le processioni sono caratterizzate dalla assenza di statue che non siano l’Addolorata e il Cristo Morto e dalla presenza dei simboli della Passione (i cosiddetti “Martìri”). Inoltre nell’accompagnamento musicale è preminente l’esecuzione di canti (ad esempio il “Miserere”) eseguiti da gruppi vocali costituiti anche da centinaia di elementi; per questo si fa riferimento alle famose processioni che si svolgono nella vostra penisola Sorrentina (Sorrento, Piano di Sorrento, Meta di Sorrento, Sant’Agnello, Vico Equense e Massa Lubrense).
Diversamente da queste ultime realtà, a Sessa Aurunca il “Miserere” è cantato solo a tre voci, costituendo un “unicum”, definito da Roberto De Simone, compositore e musicologo, “una composizione musicale e polifonica di tradizione orale, eseguita a tre voci, in cui i cantori, stringendosi l’un l’altro ed affiancando le teste, danno vita ad un dolce suono come di organo, il cui lamento richiama nenie arabe o andaluse”.
Singolare e tra le più conosciute è anche la processione del Venerdì Santo di Procida (detta dei “Turchini”) che risale addirittura al Seicento, con il corteo dei carri allegorici dei “Misteri”, che precedono le statue del Cristo Morto e della Addolorata. Questi “Misteri”  altro non sono però che rappresentazioni plastiche di scene tratte dal Vecchio Testamento e dal Vangelo, realizzate artigianalmente ogni anno dai procidani.
Ritornando dunque al punto di partenza, sorge immediatamente spontanea una serie di domande: se le processioni del Sud d’Italia fossero di derivazione spagnola, come mai in Campania, in pieno Regno delle Due Sicilie, queste sono così diverse? E come mai proprio a Napoli che era la capitale del Regno, con la presenza della corte Borbonica, non vi è traccia di processioni durante la Settimana Santa? E ancora come mai, nel resto della regione, processioni significative del Triduo Pasquale si svolgono in così poche località?
In che modo allora, baypassando la Campania, le processioni dei Misteri si sarebbero diffuse dalla Spagna alle altre regioni del Sud? Mi pare quindi che non la matrice spagnola, ma una matrice prettamente locale, sia all’origine dei vari rituali dell’Italia Meridionale.
È per me importante fare questa precisazione, nel tentativo di contribuire a sfatare quello che è un falso mito purtroppo diventato cavallo di battaglia di molti che si avvicinano all’argomento Settimana Santa solo superficialmente e senza approfondire lo studio delle consuetudini delle singole realtà che smentiscono decisamente la loro derivazione iberica.
Andando avanti nella mia esposizione, tratterò in dettaglio, per ogni regione, non più di un paio tra le realtà più significative, essendo impossibile parlare di tutte, e quando dico tutte intendo dire che veramente di tutte varrebbe la pena parlarne, perché in ognuna di esse vi sono tradizioni che meritano di essere conosciute e tutelate.
Cercherò, come già detto all’inizio, di essere sintetico ma esaustivo nel contempo, anche se vi anticipo che sulla Puglia indugerò un pochino di più.

La stessa tipologia di processioni campane è presente nelle processioni abruzzesi.
In Abruzzo il fulcro della tradizione popolare è rappresentato dalla giornata del Venerdì Santo in cui si svolge la processione del Cristo Morto, accompagnato quasi sempre dalla Madonna Addolorata.
Bellissime e famose sono le processioni del Venerdì Santo di Chieti, di Lanciano e di Sulmona dove, tra l’altro, a coronamento della Settimana Santa, nel giorno di Pasqua, avviene la sacra rappresentazione denominata “La Madonna che scappa in Piazza”, in cui l’Addolorata perde l’abito nero per apparire vestita in verde, durante la sua corsa incontro al Figlio Risorto (quello che in Sicilia è “l’Affruntata” e in Sardegna “S’Incontru”).
Singolarissima poi è la processione del Cristo Morto dell’Aquila, composta tutta da Immagini concepite in chiave moderna da artisti contemporanei, primo tra tutti Remo Brindisi. Denominatore comune di queste processioni è anche qui il “Miserere”, nelle versioni del chietino Saverio Selecchy o del frentano Francesco Masciangelo, eseguito al seguito dei sacri cortei in quasi tutte le principali località.
L’Abruzzo, dal punto di vista della Settimana Santa, rappresenta a mio modesto parere, un vero e proprio avamposto delle tradizioni popolari del Meridione d’Italia, legate alla Passione di Gesù Cristo, in quanto fa da confine tra un mondo in cui la Pietà Popolare viene esaltata al massimo ed un altro (Italia Centrale e Settentrionale) in cui storicamente i Riti Pasquali non hanno mai conosciuto i fasti delle analoghe celebrazioni che si svolgono al Sud.
Certamente anche i Riti della Settimana Santa abruzzese non sono di derivazione spagnola, e anche qui vi è la totale assenza dei cosiddetti Misteri (come in Puglia o in Sicilia), sostituiti peraltro, un po’ dappertutto, dai “Trofei della Passione”.
Ho definito singolarissima la processione del Cristo Morto che ha luogo a L’Aquila.
Qui la processione fu sospesa per quasi un paio di secoli, dal 1768 al 1953, e fu ripresa ad opera dei Frati Minori Francescani, in particolare nella persona di Fra Salvatore Roccioletti.
Ovviamente non vi erano simulacri da portare in processione e fu pertanto per questo che si ebbe l’idea di affidare la esecuzione dei simboli processionali e dei simulacri ad artisti moderni, fra cui Remo Brindisi, grande artista aquilano morto nel 1996, e al padre Fedele Brindisi. Loro sono infatti sedici dei venti simulacri portati in processione; il figlio li ha immaginati e disegnati quasi in una visione mistica, il padre le ha realizzate artigianalmente.
Queste opere sono riconosciute capolavori di arte sacra contemporanea, e sfilano in uno scenario dal sapore antico, tra i palazzi storici della città, alla fioca e suggestiva luce delle torce.
Il risultato è stato che la fattura di essi è totalmente fuori da quella a cui si è tradizionalmente abituati, in quanto questi artisti si sono espressi secondo gli odierni modi di concepire l’arte ... oserei dire in maniera quasi astratta.
Piaccia ... non piaccia ... fatto sta che, pur essendo ciò che viene portato in processione, completamente fuori dai canoni ordinari, la processione del Venerdì Santo a L’Aquila è sicuramente meritevole di essere conosciuta ed approfondita, soprattutto nel suo profondo significato religioso.
E' infatti sicuramente, questa processione, un evento di grande valore religioso se tantissimi fedeli, da molto prima del passaggio di essa, prendono posto in piedi per aspettarla, in un silenzio che al mondo d’oggi è diventato cosa rarissima.
La processione del Venerdì Santo non è organizzata da Confraternite, come altrove, ma dal 1954 al 1999 sono stati i frati Minori del Convento di San Bernardino a farsi carico di ciò (dal 1963 è stata portata avanti da Padre Casimiro Centi).
Dal 2000 è stata costituita l’Associazione Cavalieri del Venerdì Santo, formata da laici e religiosi, allo scopo di dare continuità all’annuale evento.

Il Molise, piccola regione tra l’Abruzzo e la Puglia, fatta eccezione per alcune realtà quali Campobasso ed Isernia, non presenta durante la Settimana Santa molte tradizioni legate alla Pietà popolare conosciute o che attraggano visitatori dall’esterno.
Ciò è in parte dovuto alla esiguità del numero degli abitanti; se si considera infatti che in tutta la regione vi sono circa 315.000 abitanti e che le sole Campobasso ed Isernia ne hanno insieme circa 73.000, si può facilmente immaginare come, a fronte di 136 Comuni, non vi siano manifestazioni degne di nota con una media di circa 1.800 anime per ogni paese molisano.
Quasi dappertutto poi, anche qui è la sola giornata del Venerdì Santo ad essere celebrata con processioni che si limitano alla presenza di sole due statue: il Cristo Morto e l’Addolorata che costituiscono un vero e proprio funerale di Gesù Cristo (Mortorio). Esempio di questo tipo di processione è quella che si svolge a Santa Croce di Magliano che, tra i centri minori, è anche una delle più interessanti, perchè preceduta da altri rituali tradizionali durante la Settimana Santa.
A Campobasso degno di nota è il coro di circa settecento persone al seguito del Cristo Morto, che esegue l’inno “Teco vorrei, o Signore, oggi portar la croce”.

In Puglia la Settimana Santa è una delle ricorrenze dell’Anno Liturgico più sentite in tutte le città, dalle più piccole alle più grandi, quali le stesse Bari e Taranto. Sicuramente anche in Puglia l’apice delle celebrazioni religiose, per quanto riguarda soprattutto le manifestazioni esterne, si ha nel corso della giornata del Venerdì Santo, in genere con la processione dei Misteri, ma anche il Venerdì antecedente la Domenica delle Palme, quello che un tempo era denominato di Passione o dei Dolori, vede quasi in ogni località una processione dell’Addolorata o della Desolata.
Vi sono comunque differenze sostanziali tra i riti della Settimana Santa pugliese e quelli che si svolgono in altre regioni dell’Italia meridionale; in Puglia sono soprattutto (io direi esclusivamente) le Confraternite ad organizzare le processioni, diversamente che, ad esempio, in Sicilia dove, ad esclusione della Sicilia Orientale (Enna, Augusta, Agrigento, tanto per citare alcune grosse realtà confraternali) tutto è quasi sempre demandato alle Maestranze, ai Ceti e alle categorie lavorative in genere (Trapani e Caltanissetta).
In Puglia ogni città, infatti, è sede di numerose Confraternite che arrivano a contare anche migliaia di iscritti, come ad esempio la Confraternita della Addolorata e l’Arciconfraternita del Carmine a Taranto oppure l’Arciconfraternita della Morte a Molfetta, in provincia di Bari, della quale mi onoro di essere stato Priore per poco più di sei anni.
Inoltre anche la maniera in cui le processioni vengono svolte ha una comune matrice che, sempre facendo riferimento alla Sicilia, è connotata da una cornice assolutamente mistica e di silenzioso raccoglimento, in netta antitesi con quanto accade ad Augusta o a Caltanissetta, dove lo sfilare delle “Vare” è accompagnato dai fuochi di artificio.
Sono, d’altra parte, anche queste differenze i fattori che rendono interessanti ed affascinanti tutti i riti della Settimana Santa nell’Italia del Sud, da Trapani a Sessa Aurunca, da Palermo a Lanciano.
Mi pare opportuno iniziare dalla provincia di Taranto, ed in particolare proprio dal capoluogo, dal momento che la Settimana Santa di questa città è da sempre assurta a simbolo della Settimana Santa in Puglia.
In virtù di ciò la descrizione sarà più particolareggiata, proprio per la complessità, la bellezza e la singolarità dei riti e per la fama che essi hanno in Italia e nel mondo.
A Taranto sono due le processioni che nell’arco della giornata si snodano per le vie della città tra il Venerdì ed il Sabato Santo.
La prima è quella della Addolorata, organizzata dalla Confraternita di Maria SS. Addolorata e S. Domenico che, partendo dal centro storico o “Isola”, raggiunge anche la zona nuova detta il “Borgo, oltre il famoso ponte girevole, e viene popolarmente chiamata il “Pellegrinaggio”; la seconda è quella dei Misteri, organizzata dall’Arciconfraternita del Carmine, che si svolge tutta nel “Borgo” e fa rientro in chiesa al mattino del Sabato Santo.
1 - A mezzanotte tra il Giovedì  ed il Venerdì Santo, si apre il portone della Chiesa di S. Domenico ed appare il troccolante che ha in mano uno strumento chiamato “troccola”, che quando viene agitato emette un particolare rumore e consiste in una tavola di legno decorata sulle cui facciate sono infisse quattro borchie metalliche su cui battono altrettante maniglie. Questo suono scandisce il tempo del lentissimo procedere della processione.
Appena sceso dalla lunga ed impervia scalinata della chiesa, il troccolante avanza per far distendere l’intera processione su quello che viene chiamato dai tarantini il “Pendio di S. Domenico”. Dietro il troccolante segue la prima delle due bande al seguito della processione e subito dopo la “Croce dei Misteri”, su cui sono raffigurati i simboli della Passione, portata da un confratello.
Segue  una coppia di bambini, figli di confratelli, vestiti come gli adulti, ma senza mozzetta e cappello, chiamati “le pesare”, perché hanno due pesi appesi al collo, simili a pietre, ma in legno, che secondo alcuni rappresentano il peso dei peccati, mentre per altri le pietre  su cui inciampò Gesù sulla via del Golgota.
Seguono ancora quindici coppie di confratelli incappucciati, chiamate “poste”, intervallate ogni quattro da un crocifero, che diversamente dagli altri confratelli sono a piedi scalzi, senza mozzetta e portano sulle spalle una croce in legno nera. I “crociferi” sono in numero di tre per ricordare le tre cadute di Cristo.
A chiudere la sequenza delle quindici “poste”, il cui ordine è affidato a tre “mazzieri”, vi è il cosiddetto “trono”, formato da tre confratelli dei quali, quello al centro, porta in mano un “bastoncino” con pomello in argento, che rappresenta l’autorità della Confraternita.
Dietro il “trono” prende posto il sacerdote che è immediatamente dinanzi alla statua della vergine Addolorata, la cui comparsa sulla soglia della Chiesa di S. Domenico, suscita sempre una grandissima emozione tra le migliaia di persone che assistono all’uscita della processione.
La statua, realizzata nella seconda metà del Seicento, è vestita con un abito nero, regge con la mano destra un fazzoletto finemente ricamato, con la sinistra un cuore trafitto da un pugnale ed è portata a spalla da otto confratelli, quattro in abito di rito e quattro, chiamati “forcelle”, con abito di gala, “papillon” e  guanti neri.
Dietro l’Addolorata prende posto la seconda banda, seguita per tutta la durata della processione da una fila di fedeli, donne e uomini, dei quali molti a piedi scalzi e con una candela in mano, per penitenza o per sciogliere un voto.
Il tempo che la processione impiega per compiere il primo tratto di strada (circa duecento metri) che separa la Chiesa di S. Domenico da piazza Fontana, il già citato “Pendio di S. Domenico”, è di quattro ore quando addirittura cinque, procedendo con quel dondolio esasperatamente lento chiamato “nazzecata”, un cullarsi lentissimo al suono delle marce funebri.
La processione si snoda per un lungo percorso che la vede raggiungere la parte nuova della città, oltre il famoso ponte girevole, sostare brevemente presso l’Istituto Maria Immacolata entro cui viene portata la statua della Madonna, e ritornare verso la Città Vecchia per rientrare in S. Domenico intorno alle ore 14,00.
2 - A poche ore di distanza dalla ritirata dell’Addolorata, precisamente alle 17.00, si apre il portone della Chiesa del Carmine, al centro del “Borgo”, ed ha inizio la Processione dei Misteri.
Primo ad apparire è  il “troccolante” che apre la processione; con la mano sinistra regge il “bordone” e con la destra la “troccola” ed è l’ unico, tra tutti i confratelli, ad indossare il cappello.
Subito dietro il “troccolante” appare un altro confratello che regge il “gonfalone”, simbolo della Confraternita, seguito da un altro ancora che porta la “Croce dei Misteri”.
Una volta che la processione comincerà a comporsi, dietro il “troccolante” prenderà posto la prima delle quattro bande al seguito del sacro corteo.
Esce quindi lentamente la prima delle otto statue, Gesù nell’Orto degli ulivi;  seguono, intervallate da coppie di confratelli dette i “Perdune”, Cristo alla colonna, Ecce Homo, seguita dalla seconda banda, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, seguita dalla terza banda, e Cristo Morto.
Il Cristo disteso sulla bara è ricoperto da un velo trapunto di stelle d’oro. Ai lati della bara quattro notabili della città o Cavalieri del Santo Sepolcro, reggono il laccio d’onore.
Chiude la processione la statua dell’Addolorata, preceduta dal Sacerdote e dai chierici e seguita dalla quarta banda.
Dopo una breve sosta nella chiesa di S. Francesco di Paola, il mesto corteo riprende il cammino del ritorno, per rientrare nelle prime ore del mattino del Sabato Santo nella Chiesa del Carmine.
Molto suggestivo è il momento in cui il “troccolante” batte tre colpi col “bordone” sul portone per far riaprire la chiesa.
Con la chiusura della porta della Chiesa del Carmine, dopo il rientro dell’ultima statua, terminano i riti della Settimana Santa tarantina.
Nella provincia di Taranto, nella stessa giornata, si svolgono processioni molto simili a quella del capoluogo, sia nel numero che nella tipologia delle statue … basti citare la processione dei Misteri di Pulsano che esce dalla Chiesa del Purgatorio ed è praticamente identica, anche nel nome della Confraternita, a quella tarantina.
Nella contigua provincia di Lecce la sola Gallipoli presenta, a mio modesto parere, un Venerdì Santo con una processione dei Misteri interessante, sia coreograficamente che come partecipazione popolare.
Passando alla provincia di Bari, iniziamo a parlare proprio del capoluogo pugliese.
Potrebbe sembrare anacronistico se non impossibile a quanti frequentano Bari per lavoro o semplicemente per lo shopping nella rinomata via Sparano, centralissima arteria commerciale nonchè “salotto buono” della città, eppure anche a Bari il Venerdì Santo, tra le caotiche strade del centro, si snoda una processione dei Misteri.
Ma di quali Misteri? La domanda è lecita, in quanto ad anni alterni si svolgono la processione dei Misteri di S. Gregorio o quella dei Misteri della Vallisa.
Vale la pena di menzionarle a motivo dei tanti aneddoti che fanno loro da corollario.
Queste due processioni, espressione del  carattere della baresità, nell’800 uscivano insieme il Venerdì Santo e quando si incrociavano in corso Vittorio Emanuele i portatori delle statue di S. Gregorio e della Vallisa si offendevano a vicenda, vantando ognuno la propria processione e disprezzando l’altra.
Per evitare disordini, l’Arcivescovo di Bari Mons. Basilio Clary, ordinò nel 1825 che le due processioni uscissero ad anni alterni, per cui, ancora oggi, negli anni dispari escono i Misteri di S. Gregorio e negli anni pari quelli della Vallisa.
Ciò non limitò tuttavia la rivalità, perchè i portatori di San Gregorio, nell’anno di forzata tregua processionale, dicevano a quelli della Vallisa: “Quest’anno tocca a voi? Speriamo che quando uscite piove e vi bagnate tutti quanti!”.
E magari capitava, dato il periodo, che qualche goccia venisse giù davvero. “Avete visto?”, dicevano allora quelli di San Gregorio, “Cristo è grande!”.
Per questo i Santi della Vallisa furono soprannominati “le Sande chiangiaminue”, i Santi che fanno piovere quando escono.
A loro volta i portatori della Vallisa dicevano contro quelli di S. Gregorio: “Speriamo che quando uscite voi c’è vento e una tromba d’aria vi porta avanti avanti”.
Naturalmente un po’ di vento capita sempre durante la Settimana Santa, che coincide sempre con gli inizi della primavera, per cui in conseguenza di ciò i Misteri di S. Gregorio vennero chiamati “le Sande vendeluse”.
Questa storia è ormai entrata a far parte della tradizione pasquale barese, e ancora oggi ci si chiede ogni anno: “Ce Sande iessene? Le vendeluse o le chiangiaminue?”.
La processione dei Misteri di S. Gregorio esce dalla Basilica di S. Nicola ed è costituita  da dieci statue: Gesù nell’orto, San Pietro, Gesù alla colonna, Gesù alla canna, Gesù che porta la croce, S. Giovanni, la Maddalena, il Calvario, Gesù Morto e l’Addolorata .
La processione dei Misteri della Vallisa esce attualmente dalla Chiesa di S. Gaetano, dopo aver cambiato varie sedi a partire dal 1986, e si compone invece di nove statue, una in meno rispetto a quella di S. Gregorio, perché la Maddalena, anzichè essere una statua singola, la si ritrova inginocchiata ai piedi del Calvario.
Nel territorio metropolitano  di Bari, durante l’arco del Venerdì Santo, non è solo il centro ad essere percorso dalla processione dei Misteri. La città di Bari si è estesa ormai a tal punto che altri piccoli comuni satelliti, un tempo autonomi, sono stati accorpati dal punto di vista amministrativo e, dapprima considerati frazioni, ne sono ora addirittura divenuti quartieri.
Parliamo di realtà quali Ceglie del Campo, Carbonara, Loseto, Palese e Santo Spirito, in ognuna delle quali si svolge una processione dei Misteri.
Con la sola eccezione di Santo Spirito in cui la processione (tra le più mistiche e composte che personalmente conosco) è costituita solo dall’Ecce Homo, dal Cristo Morto, dalla Addolorata e dal Legno Santo, e di Loseto in cui i Misteri sono dieci, negli altri tre quartieri il numero delle statue e dei gruppi processionali è elevatissimo.
Infatti,  a Palese sfilano in processione ventuno simulacri, a Carbonara ventisette e a Ceglie del Campo addirittura si può arrivare a cinquantaquattro, negli anni in cui dovessero essere uscire tutti e caratteristica comune, oltre all’elevato numero di Sacre Immagini, è che ognuna di queste è di proprietà di una famiglia che la custodisce per tutto l’anno nella propria abitazione e ne cura a proprie spese l’allestimento e la conduzione durante la processione del Venerdì Santo.
È evidente quanto grande sia, attraverso questa tradizione familiare, il senso di appartenenza alle rispettive comunità, cosa che ancora di più fa sentire estranei questi abitanti a quella che solo amministrativamente è la loro attuale città, cioè Bari.
Ugualmente nella vicina città di Valenzano vi è una processione dei Misteri che arriva a contare quarantasette tra gruppi e statue singole, senza considerare il Crocifisso delle Missioni ed il Sacro Legno della Croce.
Per quanto riguarda il resto della provincia, molto belle sono le processioni che si svolgono a Bitonto, a Ruvo di Puglia e a Molfetta. Queste tre città hanno in comune l’avere un vasto repertorio musicale costituito da marce funebri composte quasi esclusivamente da autori locali e che solo in esse vengono eseguite, fatte le dovute eccezioni per la “Jone” di Petrella, “Una lacrima sulla tomba di mia madre” di Vella e quella famosissima ed internazionalmente conosciuta di Chopin.
Non potendo per ovvi motivi descrivere quanto avviene in tutte e tre queste località, mi sia concesso di accennare, non foss’altro che per motivi campanilistici, essendo la mia città, a Molfetta dove, [a mezzanotte tra l’ultimo giorno di carnevale ed il primo di Quaresima, ha già luogo la prima delle processioni penitenziali che caratterizzano il periodo: la processione della Croce, organizzata dall’Arciconfraternita della Morte.
Pertanto si può ritenere che la Settimana Santa molfettese inizi sin dal Mercoledì delle Ceneri, proseguendo con una serie di riti e funzioni religiose molto seguite dalla popolazione, a cura delle due Arciconfraternite maggiori della città, quali il Pio Esercizio in onore di Maria SS. della Pietà, i Cinque Venerdì dei Misteri, il Settenario di Maria SS. Addolorata.
Il culmine di tutte queste tradizioni legate alla Passione di Gesù Cristo è rappresentato dalle processioni della Addolorata, nel Venerdì di Passione, dei Misteri nelle prime ore del Venerdì Santo e della Pietà, durante la giornata del Sabato Santo.
Il legame affettivo dei molfettesi alla loro Settimana Santa è grandissimo e si può dire che il famoso proverbio che vorrebbe il “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”, a Molfetta viene totalmente sovvertito.
Essendo la mia città e conoscendo in profondità tutto ciò che riguarda la sua Settimana Santa, non sono capace di sintetizzare quanto ci sarebbe da dire al riguardo; pertanto mi limiterò a citare (a motivo del loro particolare valore artistico) mostrandone le foto, solo le sacre immagini portate in processione.
Anche nella provincia di Foggia vi sono tradizioni di Settimana Santa degne di essere riferite; Troia, con la sua processione delle catene del venerdì Santo mattina in cui sfilano per compiere la visita ai sepolcri, trascinando pesanti catene legate alle caviglie, cinque incappucciati che recano a spalla pesanti croci; Cerignola, in cui nell’arco di nemmeno ventiquattr’ore escono ben quattro processioni; San Severo, dove all’alba del Venerdì Santo avviene l’incontro fra il Cristo alla colonna e l’Addolorata …
Tra tutte queste località spicca San Marco in Lamis, sul Gargano.
La Settimana Santa a San Marco in Lamis rappresenta uno dei momenti più particolari della Settimana Santa in Puglia in quanto si può avere l’impressione che al centro di tutta la ritualità vi sia il fuoco, più che la considerazione dei dolori patiti dalla Vergine SS. Addolorata e della Passione di Gesù Cristo. In realtà è invece vivissimo il culto ai Dolori di Maria SS. Addolorata.
Qui infatti, la sera del Venerdì Santo, più della Madonna Addolorata, che pure viene portata in processione, sono però protagoniste le cosiddette “fracchie”.
Le “fracchie” sono grandi torce di dimensioni diverse  che arrivano fino a 5-6 metri di lunghezza, costituite da un tronco spaccato longitudinalmente e riempito di rami, sterpi, schegge di legno e frasche, fino a costituire un falò di forma conica, che finisce, nella estremità più stretta, con un braccio sporgente. La “fracchia” così ottenuta viene trasportata su appositi carrelli. Il tutto è tenuto insieme da due grandi cerchi di ferro, e viene intriso di sostanze infiammabili.
La “fracchia” si accende dalla parte più larga e, per evitare che non cada in avanti o scivoli sul carrello, viene appesantita con una zavorra di sacchi di sabbia nella parte posteriore. Sempre nella parte posteriore è completata da un palo, portante in cima l'immagine della Madonna Addolorata.
Dalla chiesa omonima, esce la statua della Madonna Addolorata con ai lati alcuni lampioni, preceduta dalla croce, dal parroco e dal priore, e seguita dai confratelli e consorelle dell’Arciconfraternita dei Sette Dolori e dalle donne vestite di nero in segno di lutto. Tutti cantano lo Stabat Mater, in cori alterni tra uomini e donne.
La processione, subito dopo l’uscita, si immette su via Carlo Rosselli dove le “fracchie” più grandi aspettano la Madonna per "cederle il passo"; le fracchie piccole e medie la precedono.
In questo lungo corteo si odono contemporaneamente lo Stabat Mater e il crepitio delle fiamme. Le grida dei trasportatori e le fiamme che escono dalle fracchie danno alla processione una atmosfera da inferno dantesco. Le ruote stridono sulla pavimentazione stradale, la brace si riversa per terra, le faville si alzano verso il cielo, e vampate di calore e fiamme sopraffanno gli spettatori che a ondate si allontanano dai bordi delle strade.
La fracchia “sputa fuoco” e solo i “fracchisti” sembrano insensibili alle fiamme, intenti a tirare le due funi collegate con le catene all’asse delle ruote.
Per ritornare ad atmosfere più mistiche e concludere il discorso sulla Puglia, non si possono trascurare quelle processioni in cui vengono compiuti veri e propri atti di penitenza quali il portare pesanti croci addosso come a Noicattaro, in provincia di Bari, e a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi; qui, subito dopo la statua della Cascata (che è raffigurata nel manifesto relativo alla conferenza di questa sera), decine di crociferi incappucciati detti “pappamusci cu li trai”, penitenti vestiti con i camici delle congreghe di appartenenza, trascinano pesanti croci preparate o con le travi usate dai muratori per le impalcature nelle costruzioni delle case, o con travi di faggio. Vanno a piedi scalzi e stentano a trascinare la croce; spesso, a strappi, la fanno strisciare per terra e, per il gran peso, subito posano a terra il braccio della croce e si riposano.

La Basilicata non presenta significative celebrazioni della Settimana Santa, probabilmente per il suo atavico isolamento o per la sua religiosità fortemente ancorata più ai culti arborei, derivanti dai cicli delle stagioni e della natura, che alla Liturgia ufficiale della Chiesa Cattolica.
La Basilicata o Lucania, in virtù della sua posizione, per secoli ai margini delle grandi strade di comunicazione “si presenta rispetto alla tradizione popolare come un’area prevalentemente conservativa”, come scrive Giovanni Bronzini che con Ernesto De Martino ha maggiormente studiato questo aspetto della regione.
Nelle campagne, soprattutto del materano, sopravvivono infatti usi e tradizioni la cui origine si perde nella notte dei tempi. A questi si possono aggiungere i Riti della Settimana Santa, rimarcando però, rispetto alla confinante regione Puglia, che tipologicamente sono molto diversi.
Infatti, mentre in Puglia, durante la Settimana Santa, sono preminenti le processioni, in genere dette dei Misteri perchè costituite da più simulacri che raccontano visivamente i vari momenti della Passione, in Basilicata è ben difficile che si svolga tale tipo di processione.
Non solo, ma è quasi sempre la sola giornata del Venerdì Santo quella in cui vi sono manifestazioni religiose esterne, fuori dalla Liturgia Ufficiale, cosa che non accade infatti in Puglia dove, già dal Venerdì di Passione, vi sono un po’ dappertutto processioni della Addolorata.
Salvo rari casi quali Pisticci e Montescaglioso, in provincia di Matera, in cui il Venerdì Santo vi sono interessanti processioni dei Misteri, nel resto della regione, a farla da padrone, sono le cosiddette Sacre Rappresentazioni con personaggi viventi.
Da segnalare sono quelle che si svolgono nel comprensorio Vulture-Melfese (nella provincia di Potenza) a Barile, Rapolla, Rionero, Atella, Maschito e Venosa.
Particolarmente importante e conosciuta anche a livello nazionale è la “Via Crucis” che si svolge a Barile, facente parte di quel novero di paesi di origine “arbëreshë”, cioè albanesi, insieme a Maschito e Ginestra (anch’essa nel comprensorio Vulturino) e S. Costantino Albanese e S. Paolo Albanese (ai piedi del massiccio del Pollino).
A Barile, coerentemente con l’origine albanese, accanto alle drammatiche scene di dolore e di pianto e alle figure classiche che sfilano durante la “Via Crucis”, spiccano i personaggi “profani” inventati dalla tradizione popolare di questo luogo: la “Zingara” che porta vestiti colorati e venti chili di monili d’oro (tutti i gioielli prestati dalle famiglie più abbienti; un chiaro richiamo quindi al popolo fondatore della cittadina).
Da Natale in poi la ragazza di Barile che interpreterà la “Zingara”, di solito una bella bruna prosperosa, riunisce gli ori delle famiglie del paese.
Con i venti chili di splendidi ori antichi che così raccoglie, la “Zingara” costruisce un corpetto ricchissimo, e ancora se ne riempie le dita e le braccia, i capelli e il collo e, ridendo sfacciata, ancheggiando sfrontata davanti all’Ecce Homo insanguinato, regala alla gente ceci e confetti, estraendoli da un cestino rosso in cui si intravedono, sinistri, i chiodi della crocifissione. Malvagità e bellezza, empietà e ostentazione, sensualità e arroganza si identificano in una rappresentazione fisica, femminile, del male. La “Zingara” è accompagnata da una bambina anch’essa portante degli ori, chiamata la “Zingarella”.
Al corteo partecipano anche altri due personaggi particolari, il “Moro” e il “Moretto” dal volto scuro e gli abiti decorati con coralli presi in prestito dalle famiglie di Barile. Anch’essi sono la testimonianza dell’origine del comune lucano da una colonia albanese e la loro presenza riconduce, in particolare, al momento storico in cui gli albanesi stessi furono assaliti dai turchi.
Nel solco del richiamo alle origini, il personaggio della “Zingara” è presente anche nella Via Crucis vivente che si svolge a Maschito, anzi qui le “Zingare” sono addirittura due, la “Zingara ricca” e la “Zingara povera”; la prima, con atteggiamento sprezzante, dileggia Gesù anche nei momenti più tragici come le tre cadute sulla via del Calvario, la seconda mostra invece alterigia e disprezzo ed offre al Cristo i chiodi che serviranno per la sua crocifissione.
Anche a Rapolla, Rionero e Ripacandida, che pure non hanno origine albanese, la “Zingara” è uno dei personaggi chiave della Sacra Rappresentazione.
Un posto degno di nota è occupato, durante la Settimana Santa lucana, dai canti tradizionali, tra cui spiccano ancora una volta proprio quelli delle comunità “arbëreshë” di origine albanese, splendide nenie struggenti e malinconiche, spesso cantate indossando un costume tradizionale che si tramanda di madre in figlia.

In Calabria vi sono realtà che rappresentano una via di mezzo tra la Campania e la Puglia, ma ciò che la rende unica nel panorama, per dirla questa volta alla spagnola “Semanasantero”, sono i riti penitenziali che ancora resistono in paesi come Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro, e Verbicaro, in provincia di Cosenza.
Qui i rituali si svolgono tra “Misteri” e sangue, tra “pietas popolare” e folklore ed offrono al popolo la possibilità di estraniarsi dal reale, anche se solo per qualche giornata, di dimenticare convenzioni e ruoli sociali, avendo un profondo valore spirituale e simbolico.
Nell’ambito delle località calabresi in cui viene quindi particolarmente celebrata la Settimana Santa, ritengo che Nocera Terinese abbia un posto di primo piano per diversi motivi; in primo luogo per la genuina devozione popolare che c’è intorno al culto dei Dolori di Maria Santissima Addolorata (“a Madonna nostra”, come è chiamata dai noceresi) ed in secondo per il singolare rituale di flagellazione perpetuato tra il Venerdì ed il Sabato Santo dai “Vattienti”.
Questa tradizione popolare resiste tenacemente, nonostante vari tentativi di divieto, grazie ad un autentico spirito religioso dei partecipanti e al notevole numero di visitatori che seguono la processione e la manifestazione.
I “Vattienti” sono uomini, figli come tutti noi del nostro tempo, e meritano il massimo rispetto; essi non sono fanatici, non sono malati di mente ... esprimono semplicemente, attraverso quel gesto rituale, la loro profonda fede e la loro identità culturale, valori preziosi da custodire, in tempi di barbarie morale come quelli che stiamo vivendo.
I flagellanti di Nocera Terinese non costituiscono una confraternita religiosa, non si battono per protestare contro una società misera e scontenta. Si battono per un voto a cui si adempie per ottenere una grazia o perché l’hanno già ottenuta. Il voto viene sempre fatto per ragioni familiari ed è essenziale per il flagellante compierlo, anche a costo di grandi sacrifici.
Molti anni fa un emigrato non avendo potuto ottenere un permesso di qualche giorno per recarsi a Nocera, si è recato nell’ospedale più vicino e ha donato il sangue per gli ammalati più gravi.
Questo episodio fa notare come nei flagellanti di Nocera ci sia lo scrupolo di adempiere il voto. In altri termini per il flagellante l’importante è offrire il sangue per la grazia chiesta alla Vergine Addolorata.
Alcuni arrivano a Nocera nella mattinata del Sabato Santo per poi ripartire subito dopo l’adempimento del rito.
Non è certo questa la sede per discutere delle origini, ma quel che è certo è che questo rito ha il fine di celebrare la flagellazione e la morte che Cristo subì per la redenzione dell’umanità.
Il Cristo viene rappresentato da due persone: il Cristo flagellato, ricoperto di piaghe e sangue, è rappresentato dal “Vattiente”, mentre il Cristo che, dopo la flagellazione, viene portato da Pilato dinanzi al popolo per essere giudicato, è rappresentato dall’“Ecce Homo” (cioè l’“Acciomu”). Espressione della unicità della rappresentazione della figura di Cristo è una cordicella con la quale l’Ecce Homo è legato al “Vattiente”.
Il “Vattiente” indossa una maglia nera e un pantalone corto, rimboccato in modo da lasciare libere le cosce, e un copricapo, anche esso nero (il “mannile”), sul quale viene posta la corona di spine fatta con i rametti dell’asparago selvatico detto “sparacogna”.
L’“Ecce Homo” indossa un panno rosso che, lasciando scoperto il petto, dalla vita scende sino alle caviglie. Anch’egli porta una corona in testa fatta di ramoscelli di un arbusto dalle spine lunghe e aguzze chiamato “spina santa”.
L’ “Ecce Homo” impugna una croce realizzata con due stecche di legno rivestite con del nastro rosso. Dopo il rivestimento, alcune strisce del nastro vengono lasciate pendere dalla parte superiore della croce, come delle frange, simboleggiando il sangue di Cristo che scorre dalle piaghe.
Dopo essersi vestito a casa sua, il “Vattiente” immerge le mani in un pentolone dove è stata messa a bollire acqua con rosmarino e con tale infuso lava le cosce e i polpacci. Lo stesso infuso viene utilizzato anche alla fine della flagellazione perché, avendo un alto contenuto di tannino, “cauterizza” rapidamente le ferite.
Gli strumenti utilizzati dal “Vattiente” sono la “rosa” e il “cardo” che, a più riprese e con veemenza e scrupolosa attenzione, vengono “battuti” sulle cosce e sulle gambe. La “rosa” è un disco di sughero del diametro di dieci centimetri circa e dello spessore di tre, levigato su una faccia: serve ad iperemizzare le parti delle cosce e delle gambe che subiscono l’autoflagellazione e a ripulirle dal sangue che ne fuoriesce di continuo copiosamente.
 Il “cardo”, anch’esso fatto di sughero, ha le stesse dimensioni della rosa, ma su una faccia vi sono infisse tredici schegge di vetro, dette “lanze”, tenute salde alla radice da una mistura di cere vergini che ne lascia scoperte le punte acuminate di circa tre millimetri. Queste tredici “lanze” simboleggiano Cristo e i suoi dodici Apostoli, Giuda compreso. La scheggia acuminata che rappresenta quest’ultimo è leggermente più sporgente rispetto alle altre per penetrare di più nelle carni, evocando in tal modo il “tradimento”.
Il “Vattiente” e l’“Ecce Homo” percorrono correndo tutto il tragitto che viene compiuto dalla Madonna Addolorata durante la processione, accompagnati da un terzo uomo che porta una tanica di plastica contenente del vino che, di tanto in tanto, versa sulle ferite del “Vattiente” allo scopo di disinfettarle.
Di particolare impatto emotivo è  l’incontro dei penitenti con la statua della Madonna.
Il Sabato Santo la statua della “Addolorata” viene portata in processione per tutto il giorno attraverso le vie e i vicoli del paese. Molti sono i curiosi, giornalisti, fotografi, cineoperatori e studiosi che attendono il momento in cui, mentre la banda esegue le marce funebri e le donne cantano tristi nenie dialettali, una croce coperta da nastri rossi svolazzanti attrae l’attenzione di tutti ed appaiono un “Vattiente”  a cui è legato un “Ecce Homo” e un portatore di vino.
I tre personaggi avanzano di corsa fin davanti alla “Addolorata” e i “portantini” fermano la statua; il “Vattiente” si fa il segno della croce e si genuflette; poi si rialza e si “batte” i polpacci e le cosce mentre il terzo amico versa vino rinfrescante sulle ferite.
Finita la flagellazione il “Vattiente” segna col sangue il petto nudo dell’“Acciomu” e bacia la statua della “Addolorata”; poi il trio si allontana verso altri luoghi deputati alla flagellazione sui sagrati delle chiese, davanti alle croci, ai calvari ed ai “sepolcri” (dove sono deposti i “piatti della Madonna”, sulla soglia di casa di amici per i quali si nutrono forti sentimenti di gratitudine.
Caratteristico è il suono provocato dai colpi secchi del sughero della “rosa” e del "cardo" le cui tredici “lanze” si conficcano  nella carne da cui defluisce copioso il sangue.
Dovunque restano i segni del sangue e l’odore di questo misto ad un forte tanfo di vino; in seguito ci penseranno il tempo e la pioggia a ripulire le strade.
Concluso il giro, dopo circa un’ora, i tre amici rientrano nel luogo da cui sono usciti.
Mediante ripetuti impacchi con infuso di rosmarino, bloccano la fuoriuscita del sangue (resteranno visibili le crosticine di sangue coagulato e poi le cicatrici) e, dopo essersi ripuliti e avere indossano abiti festivi, raggiungono la processione; alcuni ritornano al loro posto di “portantini” della “Addolorata” che avevano lasciato temporaneamente vacante per potersi “battere”.
Proprio negli ultimi anni, un po’ come dappertutto nel meridione d’Italia, questi riti hanno riconquistato grande interesse da parte delle popolazioni e dei cultori di tradizioni popolari. L’aspetto positivo è rappresentato, rispetto al passato, da una maggiore osservanza dell’aspetto religioso che riduce al minimo le contaminazioni o le tentazioni di una stereotipata laicizzazione degli eventi, garantendone una corretta continuità nel futuro.
Nella notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo un rito analogo si svolge a Verbicaro dove i “Battenti” sono in numero decisamente inferiore (appena una decina di unità) rispetto a Nocera Terinese i cui flagellanti sono un centinaio. Il rito della flagellazione a Verbicaro ha subito alterne vicende che lo hanno portato quasi all’estinzione negli ultimi anni Sessanta del secolo scorso per prese di posizione contro da parte della Chiesa locale, con una ripresa negli anni Ottanta.

Attualmente, prima dell’inizio del rito, in un “catuvu” o “catoijo” (cantina-magazzino di deposito del centro storico), i “battenti”, attorniati da pochi amici, consumano una  cena conviviale a base di specialità del posto come agnello, soppressate, salsicce, formaggi e vino rosso. Quando si avvicina l’orario stabilito, le 22.00 circa, il gruppo dei “Battenti” si divide in due tra i saluti affettuosi dei presenti e si allontanano per prepararsi a “battersi”.
I “Battenti” di Verbicaro indossano abiti ed accessori tutti di colore rosso; sono scalzi, annodano in testa un fazzoletto ricadente con un angolo sugli occhi, indossano una ma­glietta ed un pantaloncino e “battono” a sangue la parte anteriore delle cosce, diversamente quindi da Nocera Terinese dove vengono battute la parte posteriore delle cosce ed i polpacci.
Preliminarmente un amico strofina loro, con un panno di lana, i muscoli anteriori delle cosce; quando la carne diviene rosea per il fluire del san­gue nei capillari superficiali, i “Battenti” si percuotono col cardillo”, uno stretto cilindro di sughero sul quale sono state infisse e saldate, con una co­lata di cera, cinque acuminate punte di vetro. Appena il sangue fluisce e macchia le cosce, i battenti stringono il cardillo” tra i denti, abbassano la testa in composta riservatezza e, per proteggere la propria identità, mettono le braccia conserte, poggiate al petto, e in silenzio escono per svolgere tre giri devozionali sullo stesso percorso. Essi si muovono a passo svelto, quasi di corsa, ma si fermano per segnare di sangue i sagrati delle chiese, gli spazi in cui si ha ricordo della passata esistenza di edifici sacri, il “Calvario” posto in cima all’abitato. A volte si “battono” accovacciati, altre volte in piedi alternando l’appoggio a terra di un piede e il sollevamento dell’altra gamba da percuotere, dando luogo ad una sorta di danza. Nel corso di questo rituale saltellano rapidamente sulle punte e scuotono il muscolo delle cosce per una fuoriuscita più regolare del sangue; soprattutto quando si feriscono, appaiono assenti, assorti in un’intensa aura introspettiva, quasi in trance.
Nei loro giri attorno al paese i “Battenti” si dividono in due gruppi, uno di quattro ed uno di sei, e sono coadiuvati da alcuni amici in veste di “spruffaturi” (spruzzatori) che da un piccolo otre colmo di vino, a loro richiesta, ne sor­seggiano un po’ per poi vaporizzarlo energicamente sulle ferite o sul “cardillo” al fine di operare un lavaggio disinfettante.

Al termine si recano sotto un portico dove si trova una fonte con lavatoio pubblico e si lavano con l’acqua corrente che rinfresca le cosce rallentando la fuoriuscita del sangue. Fermato il fluire del sangue si ritirano ancora nel locale dal quale sono usciti per rivestirsi con gli abiti ordinari. Spesso, dopo il rito, si ritrovano ancora in compagnia di amici e conoscenti per un ulteriore con­vivio che ravviva la volontà di perpetuare la pratica penitenziale, sacralizzando l’incontro amicale; alla fine si recano alla Chiesa Madre per assistere e partecipare alla liturgia collettiva.
Ho indugiato nella descrizione di ciò che avviene a Nocera Terinese e a Verbicaro, perché sono gli ultimi riti di flagellazione che ancora resistono nell’Italia Meridionale,  unitamente a quanto avviene a  Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, durante i cosiddetti “Riti Settennali”, la domenica successiva alla festività della Assunta, in agosto, e nella speranza che così come li ho descritti allontanino, da chi ne viene a conoscenza, l’idea di qualcosa di cruento e disumano, facendoli invece comprendere nella loro reale dimensione di autentico atto di fede.

La Sicilia, tra le nostre regioni, è quella che potrebbe essere in una certa maniera definita come l’“Andalucia” italiana, per il “calore” e l’atmosfera festaiola che accompagnano anche i riti della Settimana Santa.
Un intreccio tra festa e teatro esiste, com’è noto, sempre e dovunque, ma è soprattutto in Sicilia durante la Settimana Santa, che esso si rivela con la più straripante e invasiva evidenza.
Ogni città della Sicilia partecipa alle festività pasquali con dei riti che le sono propri, derivanti cioè da usi e costumi locali, da antichissime abitudini e da radicate tradizioni delle quali non sempre si trovano l’aspetto originario e le motivazioni. Si trovano, in ogni luogo, infinite sfumature, celebrazioni del tutto particolari, scenografie emozionanti e incredibili quanto fantastici costumi che riprendono quelli di antichissime confraternite.
Il ciclo commemorativo della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo è reso visibile attraverso precise forme di teatralizzazione e drammatizzazione da cui emerge, dominante, il contenuto umano e terrestre dell’evento: la Sicilia diviene un grande palcoscenico, commovente e partecipato, di scenografie del dolore e della gioia.
In una commistione di dati folklorici ed elementi liturgici ufficiali, la Settimana Santa è quel periodo in cui viene portato in scena un copione nel quale i protagonisti sono il Bene che sconfigge il Male, l’Angelo che sconfigge il Diavolo, la Vita che sconfigge la Morte (come ad esempio a Prizzi, in provincia di Palermo, dove la Domenica di Pasqua si rappresenta “U ballu dei diavoli” che vengono sconfitti dagli Angeli).
Ciò che maggiormente colpisce, in qualsiasi città o piccolo paese della Sicilia, durante i riti della Settimana Santa, è la partecipazione di tutto il popolo che vive le varie processioni o sacre rappresentazioni, partecipando come se la tragedia del Cristo fosse un fatto di famiglia e come se al posto di Gesù ci fosse il figlio di ciascuno.
Nel corso della Settimana Santa si svolgono sia le processioni, dove la liturgia popolare raggiunge il suo culmine recuperando anche preziosi tratti figurativi connessi a una cerimonialità agraria, sia le sacre rappresentazioni. Queste ultime presentano, con una serie di parti recitate, una sorta di rievocazione storica del Sacro Evento. Vengono rappresentati, di volta in volta e da caso a caso: l’Ultima Cena, la Lavanda dei Piedi, il Trasferimento all’Orto del Getsemani, il tradimento di Giuda con la cattura di Gesù e il trasferimento al Sinedrio, il processo, il Calvario, l’agonia e la morte di Gesù, la Deposizione, la Sepoltura.
Alcuni esempi di queste sacre rappresentazioni sono “A scinnenza” a Caltanissetta, il Martedì Santo, e “A Vasacra” a Barrafranca, in provincia di Enna, il Mercoledì Santo, consistente in una “Via Crucis” itinerante, in dialetto locale, che racconta la Passione di nostro Signore, dall’“Ultima Cena” fino alla “Resurrezione”.
Molto diffuse sono poi le processioni in cui l’Addolorata accompagna fino al Calvario un Cristo che porta la croce, consistente in un manichino vestito con arti snodabili che, una volta giunto sul posto stabilito, viene spogliato delle vesti e crocifisso, successivamente deposto dalla croce e sistemato su una bara, per proseguire processionalmente con la Madonna al seguito.
Un rito del genere, a metà fra la processione e la sacra rappresentazione, è quello che si svolge a Riesi, in provincia di Caltanissetta, dove l’Addolorata , accompagnata da S. Giovanni, incontra per strada Gesù con la croce sulle spalle, dando luogo ad una scena molto commovente che viene chiamata la “Giunta”, per proseguire insieme verso il Golgota.
Buseto Palizzolo, un insieme di sette borgate nei pressi di Trapani, si stacca nettamente da tutte le altre realtà, non solo siciliane, con la sua “processione dei Misteri con quadri viventi”, di relativamente recente istituzione (1981) ma già tenacemente radicata nei suoi abitanti, che si svolge la Domenica delle Palme. Questa processione, curata dalla Confraternita del Crocifisso ma ideata dal mio carissimo amico Matteo Vasco, è costituita da sedici quadri viventi che abbracciano l’intero arco temporale del Mistero Pasquale che va dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme alla sua apparizione ai discepoli di Emmaus, attraverso i momenti della Passione e della Resurrezione. Le scenografie sono collocate su carri trainati da un trattore e percorrono un itinerario campestre di circa sette chilometri.
A Palermo, nella sola giornata del Venerdì Santo, escono ben quattordici processioni, costituite ognuna dalla sola Addolorata al seguito della bara del Cristo Morto, e tante altre rionali o parrocchiali che arrivano ad un numero che sfiora la quarantina.
Processioni di grande devozione sono quelle che vedono protagonista il solo “Cristo alla colonna”, di cui sono esempi quella famosissima di Ispica in provincia di Ragusa, di Adrano, in provincia di Catania, e di Licata, in provincia di Agrigento.
Relativamente poche sono le località in cui si svolgono processioni con molti simulacri, tali da definirsi processioni dei Misteri. Esempio di questo tipo di processioni sono quella delle “Barette” a Messina il Venerdì Santo, con undici statue e quella delle “Vare” a Caltanissetta la sera del Giovedì Santo, con sedici gruppi statuari, preceduta nella serata del Mercoledì Santo da quella delle “Varicedde”, riproduzioni in miniatura delle “Vare” più grandi.
Da menzionare è quanto accade a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove, a partire dal tardo pomeriggio del Venerdì Santo, le processioni delle cosiddette “Barette” sono addirittura due, ognuna costituita da tredici tra gruppi e statue singole, in quanto anticamente il centro abitato era diviso in Barcellona e Pozzo di Gotto.
Nel primo pomeriggio le varie “Barette”, uscendo dalle rispettive chiese di appartenenza, si radunano nella Chiesa di S. Giovanni Battista, per la processione di Barcellona, e nella Chiesa di S. Maria Assunta, per la processione di Pozzo di Gotto.
Al momento in cui si radunano tutte le “Barette”, incominciano le rispettive processioni che alla sera si incontreranno nella strada che divide i due centri abitati, lungo il torrente Longano: questo è un momento molto caratteristico e atteso dai fedeli.
Dopo l’incontro delle due processioni, esse continuano nei loro percorsi fino a ritornare nei luoghi di partenza; al termine tutte le “Barette” si separano per ritornare ognuna nella propria chiesa.
La più conosciuta fra tutte le processioni siciliane è comunque quella dei Misteri di Trapani, costituita da venti gruppi (o per meglio dire diciotto gruppi più l’Addolorata e l’Urna di Cristo Morto) e della durata di ben ventiquattr’ore (inizia alle ore 14.00 del Venerdì Santo e termina alla stessa ora del Sabato Santo), cosa che la rende la manifestazione religiosa di maggior durata in Italia.
Questa è tra l’altro una processione su cui ha avuto grande influenza la dominazione spagnola, forse anche a motivo dei traffici via mare esistenti all’epoca fra Trapani e quella nazione; non bisogna dimenticare che una immagine della Madonna di Trapani, patrona della città, è presente sulla facciata del “Santuario de la Divina Pastora” a Málaga.
Su una base sagomata di legno detta anche qui “vara”, sono fissate le opere scultoree, realizzate da artigiani trapanesi del XVII e XVIII secolo che non si ispirarono alla iconografia classica, ma ad episodi citati nei Sacri Testi o nei Vangeli Apocrifi a cui aggiunsero personali interpretazioni.
La tecnica di realizzazione delle statue è particolare e tipica della zona, la cosiddetta “tela e colla”; in legno sono i volti, le mani e i piedi, così come di legno è lo scheletro, ma internamente vi è una ossatura in sughero su cui sono modellati gli abiti in stoffa, precedentemente immersi in una mistura di colla e gesso. Ciò permette una maggiore naturalezza degli abiti e maggiore plasticità espressiva.
La “vara” appoggia su cavalletti di legno resi non visibili, durante la processione, da un drappo nero detto “manta”.
I venti Misteri sono quindi:
1 - La separazione
2 - La lavanda dei piedi
3 - Gesù nell’orto del Getsemani
4 - L’arresto
5 - La caduta al Cedron
6 - Gesù dinanzi ad Hanna
7 - La negazione
8 - Gesù dinanzi ad Erode
9 - La flagellazione
10 - La coronazione di spine
11 - Ecce Homo
12 - La sentenza
13 - L’ascesa al Calvario
14 - La spogliazione
15 - La sollevazione della croce
16 - La ferita al costato
17 - La deposizione
18 - Il trasporto al Sepolcro
19 - L’urna o Gesù nel Sepolcro
20 - L’Addolorata
La scenografia dei Misteri è ambientata più nell’epoca medievale che ai tempi dell’occupazione romana della Palestina. Si possono notare soldati dalla divisa spagnoleggiante o elmi sostituiti da immaginari pennacchi, e spesso i volti di alcuni personaggi (come il giudeo della Spogliazione) altro non sono che raffigurazioni di uomini dell’epoca (nel caso specifico, sembra che il giudeo fosse un tale “Setticarini”, l’aiutante del boia allora presente a Trapani).
Le statue vengono addobbate con preziosi ornamenti in argento ed elaborate composizioni floreali, illuminate in modo da far risaltare i tratti del volto, le movenze di dolore e sofferenza.
Ogni gruppo è portato a spalla da non meno di dieci uomini, detti “massari”, retribuiti per svolgere questo compito. I portatori conferiscono alla processione uno dei suoi aspetti più significativi, la cosiddetta “annacata”, corrispondente a quella che a Taranto, sia pure molto più lenta, è la “nazzicata” o a Sessa Aurunca è la “cunnulella”. Con questo termine si intende il movimento impresso al gruppo seguendo le cadenze delle marce funebri eseguite dalle bande, anch’esse venti in quando ve ne è una dietro ogni Mistero.
Ad organizzare la processione fu, nei primi anni del Seicento, la Confraternita di San Michele Arcangelo che successivamente affidò alle maestranze cittadine l’onore e l’onere di condurre in processione i Misteri. A capo di ogni ceto vi è oggi un Capoconsole, coadiuvato dai consoli e altri collaboratori.
L’organizzazione della processione è comunque attualmente affidata alla Unione Maestranze che riunisce tutti i venti ceti ognuno dei quali è affidato un Mistero, dal momento che nel 1999, senza alcuna plausibile motivazione, l’allora Vescovo Mons. Francesco Miccichè ha “congelato” la Confraternita di San Michele Arcangelo che, ancora oggi è in questo stato, per così dire di “ibernazione”.
I Misteri sono custoditi comunque, durante l’anno, presso la settecentesca chiesa barocca delle Anime Sante del Purgatorio dalla quale prende avvio la processione nel pomeriggio del Venerdì Santo.

In Sardegna secolari tradizioni di origine spagnola (qui sì, come ad esempio a Cagliari) si fondono con antichissime usanze mistico-religiose locali per dar vita a riti, processioni e momenti corali di grande forza espressiva e suggestione.
La Settimana Santa in Sardegna è un’esperienza unica ed emozionante.
Risaltano soprattutto le processioni dei Misteri, i toccanti riti della deposizione dalla croce (Su Scravamentu) e l’incontro tra la statua di Gesù e della Madonna (S’Incontru) per le vie dei paesi, nella mattina della Domenica di Pasqua.
Un ruolo di particolare importanza lo svolgono le Confraternite che curano le sacre rappresentazioni e sfilano nei loro suggestivi costumi, intonando canti religiosi in latino e sardo, le cui origini risalgono anche al Medioevo.
Molti studiosi di storia e di etnografia sostengono che la Sardegna rappresenti, per tradizione e memoria, un continente a se stante, nel centro del Mediterraneo, con i suoi riti antichi di millenni.
Tutti degni di menzione sono i riti che si svolgono un po’ dappertutto nell’isola, come ad esempio ad Iglesias, a Cuglieri, Alghero, Santu Lussurgiu ... per finire a Domusnovas dove, grazie alla neo costituita Confraternita della Madonna Addolorata, è stata riportata in auge e con maggiore valenza religiosa, una Settimana Santa quasi scomparsa.
I Riti della Settimana Santa Sarda si contraddistinguono per la sentita ed interiorizzata partecipazione della popolazione al Mistero della morte di Gesù Cristo, vissuta in autentico spirito cristiano, proprio perchè ben lontani dallo sfarzo dei cerimoniali pugliesi e dal “clamore” di quelli siciliani in cui prevale il senso della festa.
Uno tra i riti più importanti si svolge a Castelsardo; si tratta del “Lunissanti” che inizia al mattino presto del Lunedì Santo per concludersi in tarda serata e si caratterizza per il rigido protocollo con cui si svolge, nel quale ogni piccolo gesto è codificato ed immutato da sempre
Pertanto, pur rischiando di essere questa volta noioso, sono costretto a descrivere il rito, perché sia ben compreso, in ogni suo minimo dettaglio.
Alle sette del mattino nella Chiesa di Santa Maria, a Castelsardo, vengono consegnati ai confratelli scelti dal Priore della Confraternita i “Misteri”, strumenti o simboli della Passione, dieci oggetti che simboleggiano i vari momenti della Passione di Cristo.
Essi sono: “lu caligi” (calice), la “guanta” (guanto), la “caddena” (catena), la “culunna” (colonna), li “disciplini” (flagelli), la “curona” (corona) la “crogi” (croce), la “scala”, “lu malteddu e tinaglia” (martello e tenaglia), la “lancia e spugna”.
Tali oggetti, cui vanno aggiunti il “teschio”, il “busto dell’Ecce Homo” e il “Cristo crocifisso” sorretti da un corifeo che accompagna i cori, vengono portati in processione sino alla basilica rurale di Nostra Signora di Tergu per presentare i segni del martirio di Cristo a sua Madre.
Gli appartenenti alla Confraternita impegnati attivamente nella processione sono divisi in due gruppi: “li Appoltuli”  (Apostoli) e “li Cantori” (Cantori).
Gli Apostoli portano i Misteri e sono vestiti con una tunica bianca stretta in vita da un cordone anch’esso bianco mentre il capo è coperto da un cappuccio con due fori per gli occhi.
I Cantori, invece, formano i tre Cori presenti nella processione, composti ognuno da quattro voci: “bassu”, “contra”, “bogi” e “falzittu”.
Dopo una cerimonia religiosa che sarebbe troppo lungo descrivere nei particolari, parte la processione che andrà per le strade di Castelsardo sino a giungere a Tergu, distante otto chilometri.
La processione segue un ordine preciso, scelto dal Priore della Confraternita, con la presenza dei tre cori (“Miserere”, “Stabat Mater”, “Jesu”) che intervallano i dieci Misteri ed i fedeli che seguono in coda.
Uscita dalla chiesa la processione segue un tragitto prestabilito per le vie di Castelsardo e durante il percorso si ferma varie volte.
Le fermate vengono stabilite dai Cantori che decidono dove e quando cantare.
L’andamento processionale si presenta molto dilatato con i vari Apostoli e gruppi di Cantori abbastanza distanziati gli uni dagli altri.
Arrivati ad uno slargo che dà sul mare (detto dai locali “Bastione”) la processione si arresta e i confratelli si fanno il segno della croce, baciano il Mistero che portano e lo posizionano su un apposito tavolo che si trova in loco.
Dopo di che si spogliano degli abiti della Confraternita e raggiungono in auto la Basilica di Nostra Signora di Tergu, giungendovi intorno alle ore 10,00.
Qui la processione che si era arrestata a Castelsardo si ricompone per percorrere un breve tragitto prima di entrare nella chiesa e presentare i Misteri alla Madonna. Ovviamente si rivestono con gliabiti di rito.
Il sacerdote e il Priore entrano in chiesa, si inginocchiano davanti alla statua della Madonna posta sull’altare maggiore ed escono. Quindi la processione fa il suo ingresso in chiesa con lo stesso ordine proposto a Castelsardo.
Entra il Coro del “Miserere”, si avvicina all’altare e canta in formazione circolare indirizzando il proprio canto in direzione della Madonna. Alla fine del canto il Coro si dispone in fila orizzontale. Il corifeo posto al centro della fila offre il teschio al padre confessore. Il coro si inginocchia e bacia il teschio.
Il padre confessore si dirige verso la statua della Madonna e le offre il teschio innalzandolo, poi ripone l’oggetto sacro su di un apposito tavolo posto dinnanzi all'altare. Il Coro, dopo ciò, bacia la terra e si alza dirigendosi verso la sagrestia uscendo dalla chiesa.
Successivamente entra l’Apostolo che porta il Mistero del calice che, come per il coro del “Miserere”, viene presentato dal sacerdote all’assemblea. L’Apostolo si dirige verso l’altare e nel frattempo due donne leggono passi del Vangelo relativi a tale Mistero.
L’Apostolo sta innanzi all’altare, si inginocchia, offre il Mistero al padre confessore, si alza il cappuccio e bacia il Mistero. Il Mistero è offerto alla Madonna e dopo è riposto sul tavolo innanzi all’altare. L’Apostolo bacia la terra, si alza e si ritira. I vari gesti dell’Apostolo e del padre confessore vengono spiegati e commentati dal sacerdote all'assemblea.
La sequenza descritta si ripete sia per tutti i Misteri  che per i Cori, seguendo l’ordine processionale illustrato precedentemente.
Gli atti svolti dai confratelli nella veste di Apostoli e di cantori hanno dei significati ben precisi i quali vengono commentati e spiegati all’assemblea dal sacerdote. Essi baciano il Mistero in adesione alla vita di Cristo e al martirio della sua Passione, si inginocchiano in devozione baciando la terra in segno di prostrazione ed umiltà.
Al termine della presentazione di tutti i Misteri ha inizio una Messa presieduta dal Vescovo che ha assistito all’offerta degli stessi Misteri. I confratelli sono sul presbiterio.
Alla fine della funzione tutti i confratelli cantano l’“Attitu”, quindi i fedeli si indirizzano verso l’altare per baciare il crocifisso del Coro dello “Jesu” che è retto dal Priore. Fine del rito.
I confratelli si spogliano ed escono dalla chiesa volgendo verso i campi vicini dove assieme ad altri banchetteranno allegramente con carne alla brace e vino rosso; si riuniscono su una piccola altura dove improvvisano canti profani della tradizione sarda ma anche canti sacri, animando il proprio banchetto e quello degli altri. Ci si trova in una vera e propria dimensione comunitaria. Tutti sono ospiti di tutti e non si fa difficoltà a tessere amicizie.
Intorno alle ore 18,00, finiti i lauti banchetti, i confratelli si rivestono dei panni della Confraternita e ricostituiscono la processione che dovrà tornare a Castelsardo per concludere il rito del “Lunissanti”.
La processione ricostituita col medesimo ordine percorre un breve tragitto nei pressi della Basilica di Tergu per poi interrompersi. Infatti i confratelli raggiungeranno Castelsardo in auto, come era successo nella mattinata per raggiungere Tergu.
Intorno alle ore 19,30 in Cattedrale si ricostituisce la processione dei Misteri. I confratelli si vestono nel presbiterio e le consorelle, tutte bambine, vengono vestite dalle loro madri in un angolo del transetto.
Le consorelle sono figlie o nipoti dei confratelli di età molto giovane che hanno il compito di illuminare le processioni notturne con torce distribuite dalla Confraternita.
Sono vestite di bianco con un fazzoletto bianco che copre loro il capo.
Il percorso inizia dalla Cattedrale sviluppandosi per le strade di Castelsardo sino ad arrivare in nottata alla Chiesa di Santa Maria, sede della Confraternita, dove finirà la celebrazione del “Lunissanti”.
La processione parte dalla Cattedrale con lo stesso ordine descritto precedentemente.
Ogni Mistero è accompagnato da due consorelle che reggono una torcia in mano. Le fermate dei cori per l’esecuzione dei canti e la dilatazione della processione rispecchiano le caratteristiche della mattina.
Conclude le celebrazioni religiose del “Lunissanti” una cena nella casa della Confraternita dove sono ammessi, in ambienti separati, il Priore, gli apostoli, il Vescovo, il cappellano e il parroco da una parte e gli altri confratelli da un'altra.
Questa cena vuole rappresentare “s’accunortu”, il pranzo che i parenti e gli amici del defunto offrivano a quanti si presentavano per manifestare il proprio dolore.
Il pasto è costituito da almeno sette pietanze.
Nel posto di ciascun commensale sono sistemati, uno sull’altro, sette piatti.
La catasta fa riferimento ad una antica consuetudine: con essa, infatti, si voleva esibire il benessere dei padroni di casa. Nello stesso tempo, però, si riduceva al massimo l’impegno della servitù.
Un’altra caratteristica è nei tappi delle bottiglie di vino, ognuna delle quali è sistemata di fronte a ciascuna pila di piatti.
Anzichè il normale tappo di sughero, le bottiglie sono coperte con coni capovolti di carta bianca che corrispondono ai cappucci bianchi che i confratelli portano durante i riti religiosi.

dott. Francesco Stanzione